di Vanni Sgaravatti
Il conflitto ucraino è il risultato di uno scontro tra due egemonie? L’aggressione russa è la risposta alla provocazione occidentale? Qualcosa non torna in questo modo di vedere le cose.
Ma la presunta provocazione occidentale in Ucraina era davvero un modo sottile per invadere o soggiogare la Russia? Si parla solitamente di invasione di uno Stato verso un altro, ma in questo caso è il sistema capitalistico occidentale che avrebbe provocato la Russia, non certo la governance politica americana. Ma il sistema capitalistico a cui si fa riferimento quando si parla di provocazione ha sempre fatto affari in Ucraina, con fondi americani, che poi sono stati talvolta frutto di riciclaggio russo e via così. Allora qualcosa non torna nella narrazione di due imperi sovrani che si fanno la guerra per interposte vittime, che, nel caso ucraino, peraltro sono qualche secolo che si immolano per la ricerca di un’indipendenza.
Prendiamo ad esempio gli accordi commerciali tra Unione sovietica, la Germania e altri paesi occidentali, a Vienna nel 1970, al fine di investire nella costruzione di gasdotti che portassero energia in Europa dai giacimenti appena scoperti in Siberia.
L’allora cancelliere Willy Brandt pensava di aprire al commercio con i paesi dell’est, seguendo l’idea che una maggiore interdipendenza avrebbe assicurato la pace, ma questo significava che si mettevano a confronto qualità, tecnologia, sistemi produttivi occidentali con quelli dell’est e la maggiore capacità dei primi comportava quella infiltrazione e seduzione occidentale, di cui forse si parla quando si cita la provocazione occidentale. Una seduzione che raramente si è imposta con le armi (l’Alaska fu venduta dalla Russia agli Usa).
In quel contesto, ammesse le buone intenzioni dei politici occidentali, da Kennedy a Brandt, gli affaristi e i lobbysti della plutocratica democratica americana si infilarono, anche con intenti e comportamenti corruttivi. E quelli non sono come gli oligarchi russi, manovrati come burattini dall’FSB.
“La democrazia liberale è vittoriosa, presto o tardi tutti la vorranno”, non è andata proprio così
I presidenti americani, pochi anni dopo, quando crollò il muro di Berlino, erano convinti del pensiero di Fukuyama: “La democrazia liberale è vittoriosa, presto o tardi tutti la vorranno, e non occorre nessun particolare sforzo per promuoverla; basta essere pazienti e gli effetti benefici del commercio e della globalizzazione opereranno la loro magia”. Una narrazione su cui si sviluppò e si trasformò il capitalismo del post-guerra fredda, spingendo la democrazia a rispondere alle condizioni dello sviluppo dei mercati, attraverso una centralizzazione finanziaria, deregulation nel commercio e neoliberismo.
La strategia del riavvicinamento del dopoguerra a fini di preservare la pace, almeno quella mondiale, diventò, quindi, la strategia del commercio finanziario ed i tedeschi adottarono il motto: “Wandel durch Handel” (il cambiamento attraverso il mercato, ndr), che divenne anche uno slogan russo. E, paradossalmente furono i presidenti della plutocratica democrazia occidentale, gli Usa, a partire da Reagan, che furono perplessi sul finanziamento alle autocrazie.
La Russia non si stava volgendo ad un libero mercato in una democrazia liberale, ma andava verso una cleptocrazia autocratica pienamente sviluppata, uno stato mafioso costruito e gestito con la finalità esclusiva di arricchire i suoi capi. In Russia, cioè, non furono mai create condizioni di pari opportunità e la forza dei mercati concorrenziali non fu mai liberata. Nessuno si arricchì costruendo una trappola per topi migliore (come scrive Anne Applebaum nel suo libro “Autocrazie”). I veri beneficiari del sistema furono gli oligarchi le cui fortune dipendevano dai loro rapporti politici.
Solo pochi, a quel tempo, sapevano che questo progetto era stato avviato molto tempo prima, progettato nel quartier generale del kgb, da dove Putin aveva prestato servizio negli anni ‘80 e dove già stavano costruendo la loro rete di spie, covi e conti bancari segreti. Il capitalismo russo era fin dal primo momento destinato a favorire gli addetti ai lavori, che sapevano come estrarne denaro e nasconderlo all’estero.
Con il ruolo di vicesindaco di San Pietroburgo, negli anni ‘90, Putin rilasciava licenze di esportazione per materie prime (combustibile, diesel, cemento, fertilizzanti) che venivano effettivamente vendute, in cambio di denaro che scompariva nei conti bancari di un oscuro gruppo di aziende di amici e colleghi dello stesso Putin.
Nel 1992 reclutò Sadchan, come lui ammise in un’intervista alla Catherine Belton, per rilasciare dichiarazioni di copertura a favore della libertà di impresa. Di questo ormai si sa molto, ma quello che ancora si sa solo vagamente è il ruolo delle istituzioni occidentali, legittime aziende, avvocati e politici, che resero possibile le sue operazioni e ne trassero profitti. Imprese occidentali che permisero l’accumulazione finanziaria degli oligarchi, grazie ai loro grandi acquisti delle esportazioni; agli organi di regolazione occidentali che non si preoccupavano dei contratti scorretti e alle banche occidentali, che erano stranamente poco curiose in merito ai nuovi flussi di contante che approdavano nei loro conti.
Fu il caso della Spag, società quotata alla borsa di Francoforte, con partner provenienti da Germania e Lichtenstein e che fu oggetto di un rapporto dei servizi segreti tedeschi, secondo il quale la società riciclava denaro russo oltre che denaro derivante dal traffico internazionale di droga.
Il capitalismo russo era così: le banche sembravano banche ma non lo erano, per lo più garantivano il riciclaggio del denaro; le aziende sembravano aziende ma anch’esse potevano essere semplici facciate.
L’arresto di Chodorkovskij
Nel 2004, il presidente della compagnia petrolifera Yukos, l’uomo più ricco della Russia, Chodorkovskij, fu arrestato, condannato alla detenzione e trascorse il decennio successivo in un campo di lavoro. La Yukos fu portata alla bancarotta, venduta all’asta ad un acquirente in precedenza sconosciuto, la cui azienda condivideva l’indirizzo con un negozio di telefoni cellulare della città di Tver, a nord-ovest di Mosca. Qualche giorno dopo il misterioso acquirente rivendette la Yukos a Rosneft, una compagnia petrolifera, il cui azionista di maggioranza, amministratore delegato di Rosneft era anche vicecapo dello staff di Putin. A tempo debito, fu lanciata alla borsa di Londra con l’appoggio di alcuni dei nomi più prestigiosi del mondo finanziario, poiché quasi tre quarti del valore di 80 miliardi di dollari di Rosneft era costituito da risorse rubate.
ABN AMRO Rotschild, Dresdner Kleinwort Wasserstein, J.P. Morgan e Morgan Stanley, Ernst & Young e altri dovettero rendere ben chiare le circostanze derivanti da criminalità e corruzioni. In particolare, il prospetto affermava che la maggioranza della compagnia avrebbe continuato a essere controllata da funzionari di governo, persone i cui interessi potrebbero non coincidere con quelli di altri azionisti e che potrebbero adottare pratiche d’affari che non massimizzino il valore azionario. Nondimeno, queste compagnie, a quanto si disse, guadagnarono più di 100 milioni di dollari alla vendita, dal momento che, benché debitamente avvertiti, gli investitori di Londra, acquistarono le azioni.
Come si può notare le regole del gioco, e della burocrazia, misurano la correttezza morale dalla conformità alla norma: il massimo profitto come dichiarato nello Statuto e la pubblicazione del prospetto da chi formalmente controlla.
Ma c’è anche di più
Non molto tempo dopo la vendita, nel luglio 2006, durante il G 8, in una conferenza stampa, Putin dichiarò che tutto il lavoro che stava facendo era inteso a rendere irreversibile nella Federazione russa questo processo di democratizzazione e di istituzioni di un’economia di mercato, e anche di predisporre le condizioni necessarie perché il popolo russo faccia la propria libera scelta. Come scrive sempre la Applebaum (Op. cit.), di certo Putin sapeva che questo non era vero, i giornalisti, presidenti presenti alla conferenza sapevano che non era vero, ma pochi fecero obiezioni, visto che a tanti abitanti del mondo democratico traggono profitto da questa finzione. Ma spostiamoci in Usa per trovare un altro dei tanti esempi della finanza russa in espansione. L’impianto siderurgico della Warner Steel in Ohio, in una cittadina della Rust Belt, che più tardi avrebbe votato due volte per Donald Trump, fu comprato dall’oligarca ucraino Kolomojs’kyj, che si era arricchito nel periodo in cui il suo paese, come gran parte del resto del mondo, stava seguendo le orme della Russia verso la dittatura e la cleptocrazia. Secondo il dipartimento della giustizia statunitense, l’oligarca aveva comprato la fabbrica, insieme ad altre proprietà nel Midwest per centinaia di milioni di dollari nell’ambito di un’operazione di riciclaggio del denaro collegata alla frode ai danni di Privatbank, una banca al dettaglio Ucraina.
Per non parlare degli investimenti immobiliari: per decenni gli agenti immobiliari americani non sono stati tenuti a prendere in esame l’origine dei finanziamenti dei loro clienti come accade invece per banchieri e altri uomini di affari. Un appartamento su cinque negli edifici di proprietà di Trump risultava appartenenti a soggetti anonimi. Almeno 13 persone avevano legami comprovati o presunti con la mafia russa, hanno posseduto appartamenti nelle proprietà con il marchio Trump o hanno condotto affari. Aziende legate all’oligarca comprarono mezza dozzina di acciaierie, quattro edifici di uffici, un albergo, un centro congressi a Cleveland, un’area commerciale a Dallas, una fabbrica dismessa della Motorola vicino a Chicago.
Il denaro usato per le acquisizioni fluiva nel Midwest tramite compagnie di facciata, di Cipro, delle isole vergini britanniche, con l’aiuto della divisione americana di Deutsche Bank, attraverso lo stesso percorso seguito anche dal denaro russo, kazako, azero, cinese, angolano, venezuelano. Denaro che fruisce dall’autocrazia cleptocratica per accedere ai mercati finanziari in Nord America e in Europa.
Il piano dell’ucraino Kolomojs’kyj per produrre in modo fraudolento non fu rovinato non da una qualsiasi indagine americana bensì dalla rivoluzione Ucraina dell’Euromaiden nel 2014, cioè dalle stesse manifestazioni di piazza che persuasero il presidente filorusso dell’ucraina Yanukovich a fuggire.
Mentre i dimostranti che si riunivano nella piazza centrale chiedevano sia la democrazia sia la fine della corruzione in grande stile che aveva travolto il paese, gli americani di rado prendevano in considerazione il ruolo che i loro concittadini svolgevano o stanno ancora svolgendo nel consentire queste operazioni.
Per non parlare delle società di comodo di proprietà di anonimi e fondi con sedi in paradisi fiscali offshore, come Jersey e le isole Cayman, che occultano una quota del PIL globale che potrebbe arrivare al 10%. Si tratta di denaro proveniente dal traffico di droga nascosto alle autorità scali o, nel caso di Kolomojs’ky, presumibilmente rubato ai comuni cittadini. In quel mondo il furto viene remunerato, le tasse non si pagano, le forze dell’ordine sono impotenti e le regole sono qualcosa da eludere.
La maggior parte dei cittadini dei paesi democratici sono vagamente a conoscenza di questo universo alternativo, ma immaginano che esista in paesi lontani o in esotiche isole tropicali. Ma indagini di giornalisti investigativi hanno anche evidenziato, per la prima volta in modo così accessibile, come il Delaware, il Nevada, il Wyoming, tranquilli normali stati americani, con tranquilli normali cittadini americani abbiano creato strumenti finanziari che investitori anonimi possono utilizzare per nascondere il loro denaro al mondo.
Gli agenti immobiliari non fanno troppe domande nel Sussex o nell’Hampshire, i proprietari di fabbriche sono ansiosi di disfarsi delle loro aziende in fallimento, i banchieri sono felici di accettare misteriosi depositi dei clienti altrettanto misteriosi. Tutti questi soggetti contribuiscono a minare lo stato di diritto nei loro stessi paesi, a rafforzare il legame tra cleptocrazia e autarchia.
In tutto il mondo, la globalizzazione della finanza, la pletora di nascondigli e la benigna tolleranza che le democrazie hanno dimostrato per la corruzione in paesi stranieri danno oggi agli autocrati opportunità che pochi avrebbero potuto immaginare soltanto un paio di decenni fa. Questo, insieme ai suoi grandi sogni storici, è la ragione per cui Putin odiava così tanto l’attivismo della democrazia Ucraina ed era tanto in collera per la rivoluzione del 2014.
Il motore che spinge la crescita e l’accumulazione capitalistica è sempre stata l’asimmetria dei poteri ed il controllo dello sfruttamento. La disuguaglianza tra stati è diminuita (ed è il motivo della crescita dell’aumento del livello del reddito medio pro-capite mondiale, presa malamente a prova che il trickle down funziona), ma è aumentata quella dentro gli Stati.
Dopo che la fase della colonizzazione occidentale è finita, diventava un po’ più difficile esportare la povertà e lo sfruttamento come prima, quando i risultati della prima fase dell’industrializzazione aveva fatto pensare ad un lord inglese in visita nel centro di Londra, che sarebbe stato necessario sfruttare le colonie, se si voleva evitare una rivoluzione in Inghilterra.
Ma, se diminuisce la possibilità di esportare sfruttamento in altri paesi, allora per evitare il rischio di un collasso sociale, occorre una maggiore sorveglianza e controllo da parte del potere, con strumenti e narrazioni sofisticate in occidente, più basiche e brutali in oriente, dove il consumo e il benessere è così poco diffuso che le persone non possono essere comprate tramite merci e servizi, ma semmai occorre “comprarle” con l’orgoglio dell’appartenenza a comunità forti e potenti: il solito “reich millenario”, tanto per capirsi, depositario di un destino universale.
Insomma, sembra di essere all’alba di un nuovo medioevo prossimo venturo
Hitler, in Mein Kampf, scrisse che la democrazia parlamentare era uno dei più gravi sintomi di decadenza del genere umano e proclamò che non era la libertà individuale a essere un segno di un più alto livello di cultura, ma la restrizione della libertà individuale se praticata da un’organizzazione razzialmente pura.
Lenin scrisse che la democrazia borghese è l’espressione mendace di un liberale che vuole truffare i lavoratori e che soltanto dei semplicioni possono credere che il proletariato conquisti la maggioranza alle elezioni, sotto il giogo della borghesia.
Putin ora dichiara che ritiene vergognoso presentarsi agli elettori per cercare di dimostrare che si è più affidabili, facendo promesse e che gli accordi internazionali si rispettano fino a quando non cambiano i rapporti di forza.
La differenza tra il XX secolo e quello attuale è che gli autarchi non devono più giustificare il potere con un’ideologia che li legittimi, come in passato, quando dovevano cercare un consenso internazionale, in particolare in conformità con i concetti emersi dopo la Seconda guerra mondiale per preservare la pace.
Non esiste più la necessità di giustificare le repressioni: Russia, Cina (repressione dei musulmani), Iran, Myanmar, Venezuela, Siria, Bielorussia, Angola, Congo, Sudan, ecc. non sono situazioni diverse dalle repressioni del passato, in alcuni casi persino meno estese, ma la differenza è che i leader non si nascondono più. Semmai basta dire alla popolazione che può accedere ai media direttamente (senza essere informato solo dai giornali del paese, magari appesi agli angoli delle strade) che non è vero. Internet ha liberato dalla propaganda delle sezioni di partito, per finire in un calderone, in cui tutti discutono e ognuno dice che l’altro è male informato.
I governi di Russia e Cina per decenni hanno lavorato per una propaganda che sosteneva che le libertà civili e lo stato di diritto incarnavano i principi occidentali a cui non attribuiscono alcun valore. Il fatto che in Cina ci siano algoritmi per dare punteggi che hanno impedito a centinaia di migliaia di cinesi di non spostarsi comprando un biglietto di un treno, perché non abbastanza affidabili, non è esattamente uguale al punteggio sul rischio creditizio che operano le banche da noi.
In questo desiderio di vedere i conflitti come uno scontro tra due egemonie imperiali e territoriali nasconde il fatto che sono i sistemi, con alleati che vivono da una parte all’altra degli oceani, che si scontrano. Gli Ucraini, ad esempio, perseguendo la loro indipendenza, lottano, anche senza saperlo, ancora una volta, per difendere un’idea di occidente liberale e democratico (non un territorio o un’egemonia), così come hanno fatto nella loro storia a partire dal 1240 nella difesa dall’orda d’oro dei Mongoli, nel corso del risorgimento del poeta Taras Shevchenko, con la Rada, parlamento indipendente del 1917.
Pensando alla lotta degli Ucraini, mi viene in mente il film il pianeta delle scimmie
L’astronauta, alias il patriota ucraino, viene lasciato libero di andarsene dall’autarchico pianeta delle scimmie, la Russia, per ritornare a casa propria, l’Europa, per poi trovare la Statua della Libertà, affossata nella sabbia. In effetti, difendono la Statua della Libertà, ma non quella che si trova in uno Stato, gli Usa, che ne ha dimenticato l’ispirazione, ma l’idea che simbolicamente rappresenta.
(21 gennaio 2025)
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